Sconvolgente. Commovente.
Queste le sensazioni provate ierisera all’incontro, tenutosi al Centro Balducci di Zugliano, con Lucia Annibali, la prima donna in Italia a subire l’orrore dell’acidificazione il 17 aprile 2013.
Una sala gremita, oltre 400 persone, silenziose, attente ad ascoltare il racconto di Lucia e le riflessioni stimolate da brevi interventi di don Pierluigi Di Piazza, anche ricavati dal libro presentato.
Un don Pierluigi dalla voce insolitamente commossa ma sempre lucido, rispettoso, profondo.
E una straordinaria Lucia, che ha ripercorso quanto le è accaduto partendo proprio da quello che ha capito troppo tardi essere un amore “malato”, vissuto in un rapporto tra lei e l’allora compagno, distorto e condizionato da ricatti e pressioni, slanci e passioni, desideri e paure, difficile da spiegare e complicato da capire.
Eppoi l’agguato, il dolore, il terrore, il buio, l’orrore, l’incredulità, lo smarrimento.
E ancora dolore, la frustrazione, la rabbia, la disperazione, la solitudine.
Ma contemporaneamente la solidarietà, l’affetto, la competenza, l’abnegazione del personale medico e sanitario del pronto soccorso prima e del centro grandi ustionati di parma, la vicinanza, l’amore, il calore di familiari e amici.
Emerge da Lucia una sorprendente forza interiore, una grande forza d’animo, una profondità (così l’ha definita don Pierluigi) che la sorreggono nella lunga riabilitazione durante la quale pian piano recupera la vista, e le permettono di sopportare i ripetuti interventi (ormai 15) che ricostruiscono progressivamente il suo volto; e la sua coraggiosa decisione di rinunciare presto, quasi subito, a bende e mascherature, volendo mostrarsi per quel che era, accettandosi così e così farsi accettare.
E lo dice con serenità: “amo il mio viso più di quanto lo amassi quand’era perfetto, lo amo perchè mi sono sudata ogni piccolo, piccolissimo passo avanti per vederlo migliorare”.
C’è stato poi anche l’intervento del dottor Losasso, chirurgo plastico e presidente dell’associazione friulana Smile Again, nata per ridare speranza, voce, aiuto e vita, con interventi di chirurgia ricostruttiva, sostegno psicologico, reinserimento sociale, alle centinaia di donne, ragazze, bambine pakistane sfregiate ogni anno con sostanze corrosive da pretendenti o mariti insoddisfatti, da padri prepotenti, da uomini-padroni. Racconta che di queste, circa un quarto non sopravvive, mentre le rimanenti ce la fanno solo a scapito di gravissimi traumi e mutilazioni, e il più delle volte gli attacchi non vengono neppure denunciati, complici il costume, la paura, la vergogna, l’omertà.
Anche dalla sala numerosi interventi, soprattutto di donne, di comprensibile solidarietà e amicizia ma anche, quasi inaspettatamente, di altre vittime della miseria e della frustrazione maschile. Non acido in questi casi ma ripetute violenze domestiche, un accoltellamento, un investimento stradale. E la rabbia di queste nel constatare la troppo spesso insufficiente risposta giuridica e penale, e la paura di vivere, ossessionate da possibili ulteriori vendette e ritorsioni.
E l’incredulità, che aggiunge sofferenza alla sofferenza, nel costatare il distacco indifferente dei colpevoli e della loro cerchia, concentrati sulla giustificazione del loro atto e sulla minimizzazione delle conseguenze.
E non può non venire in mente l’inconcepibile episodio di pochi giorni fa e l’assurda paradossale difesa della madre napoletana: “È stato un gioco!”; Napoli come Pesaro come qualsiasi altro città: l’imbecillità non ha cittadinanza, latitudine, colore.
E si inserisce anche l’aspetto mediatico di queste vicende, altro segno evidente della stortura culturale dominante, dove sempre e comunque la donna o se l’è cercata o avrebbe potuto accorgersene prima, per non parlare dell’immondezzaio dei rotocalchi e dei talkshow dove tutti vengono invitati e spronati da indegni conduttori a parlare di tutto (“gente che parla di persone e di fatti che non conoscono.. esperti?? ma esperti di cosa???” dice Lucia).
Addirittura un intervento reclama la pena di morte per chi commette questi crimini, al quale fa da contraltare il richiamo a ricordare come la repressione e l’inasprimento delle pene non basti se culturalmente non maturano altre consapevolezze di rispetto e considerazione verso la donna. E significativamente viene ricordato anche il recentissimo Nobel per la pace a Malala, la ragazzina pakistana “sparata” perchè voleva studiare.
“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa.”