Lunedì scorso terzo appuntamento della rassegna LiberForumFilm allestita da La Corrente e dai Liberi Lettori di Villa Altan.
L’idea è stata quella di proiettare film tratti da libri, promuovendo la lettura di questi ultimi abbinando successivamente la proiezione della pellicola ispirata o tratta da questi.
Il tema scelto che unisse i 5 titoli è stato quello dei sensi, quindi opere che potessero ricondursi a vista, olfatto, tatto, udito e gusto.È toccato quindi all’udito scegliendo L’assedio, racconto di James Lasdun e l’omonimo film di Bernardo Bertolucci. La proiezione ha avuto luogo presso Villa Altan unendo così idealmente gruppi e opere con una soddisfacente partecipazione, che ha apprezzato il film scambiando alla fine impressioni e considerazioni.
Archivio dell'autore: Roberto Feletto
Vivere e morire con dignità
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Vivere e morire con dignità
Incontro, confronto, dialogo
Centro Balducci, venerdì 27 febbraio 2015, ore 20.30
Questa questione così profonda, delicata, complessa che riguarda noi tutti e oggi direttamente migliaia di persone ci chiede informazione corretta, riflessione profonda, dialogo, confronto, scelte etiche, culturali, legislative, spirituali.
L’incontro si propone queste finalità.
Straordinaria occasione ierisera al Centro Balducci di Zugliano.
Il tema affrontato nell’incontro era importante e delicato, riguardando il vivere e morire con dignità.
I relatori, competenti, qualificati, motivati, esprimevano ciascuno l’ambito di appartenenza umana e professionale che, intrecciandosi, rappresentevano.
Beppino Englaro, padre e cittadino per la società civile.
Giulia Facchini Martini, avvocato e nipote del cardinal Martini, per la legge.
Vito di Piazza, medico e chirurgo a Tolmezzo, per la scienza.
Pierluigi di Piazza, sacerdote a Zugliano per la spiritualità.
Il tutto moderato dalle pacate ma puntuali sollecitazioni di Marinella Chirico, giornalista RAI.
Una sala gremita, silenziosa, attenta, a tratti commossa e mormorante.
L’introduzione affidata a Don Pierluigi che ha letto la lettera scritta da Giulia Facchini Martini subito dopo la morte dello zio.
«Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato.»
qui il testo integrale
qui una lettura appassionata
A questa lettura, intima, affettuosa, sincera, è seguito l’intervento della professionista della legge, l’avvocata Facchini Martini che ha spiegato come, senza attendere una ancor lontana legge sul testamento biologico e pur ricordando i passi fatti dalla Regione Friuli Venezia Giulia con l’approvazione in questi giorni del Registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, già ora sia possibile per sè stessi decidere come e fino a che punto essere curati, come e fino a che punto essere tenuti in vita, attraverso l’istituto dell’amministratore di sostegno ovvero di quell’apposita figura destinata alla tutela di un individuo la cui capacità di agire risulti limitata o del tutto compromessa. L’amministratore di sostegno può decidere su questioni sanitarie compreso dire basta a cure inutili e invasive se questo rispetta la volontà della persona che rappresenta.
qui ulteriori informazioni
È toccato poi al dottor Vito Di Piazza, primario di Medicina dell’Ospedale di Tolmezzo, dare voce all’esperienza diretta degli ospedali dove ormai la gran parte delle vite termina.
Citando esperienze e numeri secondo i quali spesso, troppo spesso, terapie curative vengono somministrate in pazienti senz’altra speranza che quella di non soffrire e di essere accompagnati il più serenamente possibile verso l’inevitabile fine terrena.
Riportando anche le paure e i timori dei medici di azioni legali e denunce.
Ricordando come sia drammaticamente in ritardo l’applicazione estesa della pratica di cure palliative e terapia del dolore e colpevolmenti mancanti cattedre universitarie apposite.
Denunciando una disponibilità di risorse in questo ambito 100 volte minore rispetto ad un paese come la Germania, dove da anni operano e insegnano anche medici italiani.
Proponendo l’esempio di altri paesi europei che indicano come obiettivo strategico della propria politica sanitaria il potenziamento e l’estensione della cura palliativa e terapia del dolore.
qui approfondimenti
Poi l’intervento pacato e toccante di Beppino Englaro, presentato dalla Chirico e da Facchini Martini come eroe civile (apprezzamento da lui gentilmente declinato: “sono solo un padre che amava e conosceva sua figlia”), vibrante di quell’intensità emotiva e accorata partecipazione che solo un padre innamorato della figlia può interpretare.
Un padre che troppi media, troppi opinionisti, troppa opinione pubblica, non conoscevano, ignorando fatti e circostanze e dettagli fondamentali per capire e inquadrare correttamente la vicenda.
Un padre che conosceva bene la figlia Eluana, una famiglia che sull’argomento del fine vita aveva ampiamente discusso per un tragico avvenimento accaduto giusto un anno prima ad un amico della ragazza, la cui sorte fu inconsapevole, inimmaginabile analogia a quanto un anno dopo sarebbe accaduto a lei stessa.
Che appunto su quell’episodio chiaramente, consapevolmente, responsabilmente espresse la propria volontà, la propria idea,
E come ha ripetuto anche ierisera Englaro: “Di cos’altro c’era bisogno, per lasciare che la vita completasse il suo inesorabile corso, che la morte compisse il suo pietoso compito?”
Ma i medici, quei medici (che non tutti i medici sono liberi, illuminati, coscienziosi, rispettosi) gli risposero: “Per scienza, per conoscenza, per codice deontologico, per il giuramento ippocratico, non possiamo non curare.” Condannando così Eluana a vivere una vita che già aveva dichiarato non ammettere e non volere come “vita” e il virgolettato è d’obbligo.
Ha anche citato Leonardo Sciascia: ” .. a un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza.”
E ancora: “In realtà era una questione di semplicità e chiarezza cristalline: l’autodeterminanzione terapeutica non può incontrare un limite, anche se ne consegue la morte, e ciò non ha nulla a che fare con l’eutanasia. La Costituzione vieta di discriminare una persona per la sua condizione: se non è più capace di intendere e di volere rimane sempre la stessa persona. Eluana aveva espresso la sua volontà, anche per iscritto, noi ci siamo limitati a darle voce.”
Rispondendo a quanti gli dicevano come tali situazioni si facciano accadere, senza clamori, che: “Io avevo e ho la convinzione che la vera libertà sia solo nella società e nella legalità. In questo contesto si era creata la situazione in cui si trovava Eluana, in questo contesto doveva essere risolta. Il sotterfugio del fai da te non è libertà né legalità. E infatti Renzo Tondo, all’epoca, disse: in Friuli Venezia Giulia le sentenze si applicano. Contrariamente a quanto aveva fatto Formigoni.”
qui una recente intervista
La chiusura è toccata quindi a Don Pierluigi Di Piazza, che con l’ormai conosciuta risoluta pacatezza ha rivendicato la necessità morale di affrontare serenamente e rispettosamente un argomento così delicato e sensibile.
Ma senza ipocrisie.
Richiamando per questo nel suo intervento considerazioni già espresse nel suo ultimo libro Compagni di strada.
Ha ricordato come “Fra le anomalie tutte italiane che riguardano la politica e la Chiesa, c’è quella di far assurgere a questioni di assoluto e irrinunciabile valore una, due, tre vicende per un tempo brevissimo, salvo poi farle scomparire dall’attenzione, dall’approfondimento e dal dibattito.” e “In quei giorni di dibattito arroventato – Eluana è morta il 9 febbraio 2009 –, sembrava che la politica fosse chiamata a una scelta cruciale, come se da questa scelta dipendessero le sorti del Paese. E anche per la Chiesa appoggiare il tentativo della politica di fermare l’attuazione del decreto della magistratura per quella situazione, sembrava – è proprio il caso di dirlo – una questione di vita o di morte. E poi cos’è avvenuto? Qualche dibattito, ideologicamente preconfezionato più che approfondito nei contenuti, senza peraltro arrivare a una conclusione legislativa per la libertà di decidere riguardo alle terapie. Poi di nuovo il silenzio. Quante persone nel nostro Paese si trovano nella condizione di Eluana? Quanti i familiari che le accompagnano? E con quali vissuti, con quali prospettive? Quanti ammalati terminali negli ospedali, nelle case di riposo, nelle famiglie vengono aiutati a soffrire e morire nel modo più umano possibile, aumentando le dosi di morfina, quindi di fatto accelerando l’approssimarsi della morte? E chi ne parla? E quanti sono gli incontri negli ospedali e nei territori dove si può partecipare per capire, approfondire, orientarsi e poi, al momento, decidere, non in maniera improvvisata, ma per quanto possibile preparati? E nella Chiesa dove e quando se ne parla? Quasi mai e da nessuna parte, perché è più facile e meno impegnativo rifugiarsi nelle dichiarazioni sui “principi non negoziabili” o esprimersi ancora definendo la morte di Eluana una uccisione.”
Riconoscendo poi in Beppino Englaro “Un uomo, per quanto ho potuto percepire, il cui mondo interiore è segnato da una grande sofferenza, ma che possiede una determinazione e un coraggio indomiti nell’affrontare e condurre una dolorosissima vicenda personale attraverso difficoltà, contrasti, attacchi e offese personali. Sedevo accanto a un uomo con una storia così grande e dolorosa che mai avrebbe immaginato di dover vivere; una storia che dalla dimensione personale è stata fatta diventare pubblica, sia nel senso etico che politico e legislativo della parola e nella relazione di amore fra un padre e una figlia.”
Segnalando inoltre come “Purtroppo nel nostro Paese c’è un grave deficit riguardo alla laicità e al pluralismo delle ispirazioni, delle scelte e dei percorsi; e si considera spesso nemico chi compie scelte differenti senza considerare che le nostre scelte e la fedeltà ad esse dipendono soltanto da noi e dalla nostra coerenza, e non da altri.”
Ricordando anche come proprio in questi giorni un teologo come Hans Küng, ammalato di Parkinson, abbia espresso il diritto, se potrà ancora farlo, di decidere con la sua responsabilità sul momento e il modo della propria morte, considerando conseguenza del principio della dignità umana il principio del diritto all’autodeterminazione, anche per l’ultima tappa, la morte. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere.
Don Pierluigi ha quindi concluso constatando come “L’impegno costante di tutti dovrebbe essere quello di rendere possibile il vivere, soffrire e morire nel modo più umano”.
qui una sua riflessione
Che aggiungere quindi?
Forse al tavolo è mancato l’intervento di chi proponesse e sostenesse le posizioni di chi difende la vita strenuamente, ad oltranza, oltre ogni ragionevole dubbio, al di là di ogni possibile speranza, supportato quindi dalla sola tecnica, progredita a tal punto da lasciar indietro irrisoluti quesiti di etica e morale.
Personalmente non ne ho sentito la mancanza:
ho ancora negli occhi le ingenue e cieche candeline accese alle finestre “per far vivere Eluana”; ingenue perchè forse c’era una candida speranza, cieche perchè speranza non c’era.
ma, soprattutto, ho ancora nelle orecchie le invettive isteriche di chi apostrofava il papà Beppino come “assassino”.
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A 100 anni dalla prima grande tragica guerra mondiale
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Ierisera presso la sala teatrocinema Damiano Chiesa di Francenigo, ha avuto luogo un interessante incontro di commemorazione della prima guerra mondiale, a cent’anni dall’entrata in guerra dell’allora Regno Italiano.
Il dottor Ermanno Fellet con l’ausilio di un ricco repertorio di immagini ne ha percorso le vicende, ricordando cause, episodi, date e luoghi con passione e partecipazione personale.
Un attento pubblico ha seguito in silenzio l’esposizione, cogliendo i numerosi spunti di riflessione proposti dal relatore e condividendone a più riprese le considerazioni di volta in volta aneddotiche o di consenso per le gesta dei soldati italiani mandati al massacro in condizioni spesso miserabili ma anche di critica e condanna verso quelle gerarchie militari e pensatori invasati che quel massacro perseguirono.
Occasione quindi per commemorare il sacrificio enorme di centinaia di migliaia di italiani, ma non celebrare quella che fu la prima grande tragedia mondiale, perchè come riportò anni dopo anche Primo Levi “Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo“.
Un appuntamento che ha ben fatto il paio con quello del dicembre scorso dedicato al fumetto di Paolo Cossi “1914 Io mi rifiuto!” con lo stesso autore e Pierluigi di Piazza.
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Alcuni appuntamenti interessanti
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Compagni di strada
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Ierisera a Villa Frova di Caneva, don Pierluigi Di Piazza – prete “di frontiera”, fondatore del Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud) – ha presentato grazie all’iniziativa del GAS di Caneva, il suo ultimo libro “Compagni di strada – In cammino nella Chiesa della speranza” da dove emerge il suo sogno di una Chiesa povera e senza potere, libera e liberatrice, non clericale, femminile, democratica e pluralista.
Per delinearla ha scelto lo stile narrativo, del racconto di viaggio, insieme ad alcuni compagni di strada, credenti, non credenti e credenti in altre fedi – Margherita Hack, don Tonino Bello, don Puglisi, mons. Romero, il Dalai Lama, don Gallo, Eluana e Beppino Englaro e altri ancora –, che sono profeti e testimoni. Ciascuno “incarna” un valore, evangelico e laico allo stesso tempo: Margherita Hack, per esempio, la laicità ma anche l’etica dei non credenti. «Sono convinto – ha spiegato – della necessità di affermare e di praticare la laicità, la laicità autentica, libera dal confessionalismo, dall’integralismo e dal laicismo, perché ci possono essere posizioni di assolutismo in entrambe le posizioni, quindi di dipendenza, di chiusura, di ostilità. Invece la vera laicità libera la fede alla sua autenticità, come la vera fede favorisce e incoraggia la laicità. Mi sento laico, credente sempre in ricerca e prete. Per questo mi sono trovato a condividere l’etica dichiarata e vissuta da Margherita Hack sulla giustizia, l’accoglienza, la pace, i diritti civili, il superamento di ogni forma di discriminazione, esclusione e razzismo, l’attenzione e la premura per tutti gli esseri viventi, animali, piante e i diversi organismi. Margherita Hack diceva, in sintonia con me, che la fede è fede e che non si può dimostrare né che Dio esiste né che non esiste. Il rispetto quindi deve essere reciproco fra persone diverse per ispirazione ed itinerario, ma unite dal comune obiettivo di contribuire ad un mondo più giusto ed umano».
Un capitolo lo ha dedicato ad Eluana e Beppino Englaro, con cui ha condiviso un pezzo di strada, anche perché la parte finale della loro storia si è svolta ad Udine…
«Ho ricordato Eluana e Beppino per la necessità di liberare la storia delle persone dalle strumentalità del moralismo, della politica, della religione, perché l’incontro vero con la storia delle persone possa significare ascolto, rispetto, dialogo ricerca di strade possibili per poter contribuire a vivere, soffrire e morire nel modo più umano possibile».
Una riflessione l’ha dedicata anche ai “principi non negoziabili”…
«Negli ultimi anni la Chiesa, una Chiesa politica, e certa politica hanno fatto a gara a sostenersi nel dichiarare i principi non negoziabili, espressione che pare scomparsa con l’arrivo di papa Francesco, il quale ha affermato che l’espressione non gli piace, perché i valori sono tali e basta. Inoltre è grossolana nei contenuti e nel linguaggio: “non negoziabili” si riferisce ad una sorta di trattativa mercantile, sconveniente se riferita alla vita delle persone. E ancora più grave se si pensa che la Chiesa dovrebbe incontrare le persone con le loro storie diverse, ascoltare, curare, accompagnare, esprimere condivisione e incoraggiamento. La non negoziabilità annulla ogni possibilità di dialogo. Le questioni della bioetica, dell’inizio e del fine vita chiedono informazione e formazione, riferimenti etici profondi, rispetto della libertà delle persone, anche nell’accettare o rifiutare le cure, nel decidere riguardo alla morte. E questo non si pone contro Dio, ma si esprime alla sua presenza con una libertà consapevole e serena, con la fiducia e l’affidamento della vita, non solo di quella biologica, a lui, fonte e accoglienza della vita».
Un pensiero anche per il Concilio, riferimento che attraversa e permea ogni pagina del libro, a 50 anni di distanza..
«Lo spirito del Concilio ci sta davanti, l’impegno per il suo compimento dovrebbe vederci coinvolti, soprattutto su due dimensioni fondamentali: la Chiesa come popolo di Dio in cammino nella storia, di cui papa, vescovi, preti, religiosi e religiose sono una piccola parte con compiti specifici, non di superiorità e di distanza, ma di condivisione, di servizio. E poi il rapporto fra Chiesa e mondo: non di superiorità, di sospetto, di giudizio preventivo, bensì di attenzione, ascolto, apprendimento, dialogo, e poi orientamento, indicazione, insegnamento sempre rispettoso, di forte denuncia e giudizio su tutte quelle situazioni che opprimono, offendono e umiliano la dignità delle persone».
Nell’ultimo capitolo che titola “Una Chiesa che non ha paura e che guarda al futuro” sottolinea i gesti e le parole di Francesco..
«Certamente le parole e i gesti di Francesco incoraggiano tanti preti insieme a tante persone che in questi anni sono stati sospettati e criticati per il loro impegno nella società, per un rinnovamento di fondo della Chiesa. Sta spostando il baricentro dalla dottrina alla testimonianza, dall’istituzione alle relazioni, dalla preoccupazione organizzativa all’atteggiamento interiore».
Una riflessione infine sul tema della pace e della guerra..
«Nel ricordare quella che io definisco la prima tragedia mondiale il rispetto per le vittime, tutte le vittime non può far dimenticare le migliaia di soldati che sono stati processati e uccisi, anche sul Carso, perché si sono rifiutati di obbedire a comandi contro l’umanità: sono stati a lungo bollati come vigliacchi e disertori, per noi sono profetici testimoni di umanità e di pace; meritano di essere esplicitamente ricordati nella celebrazione della memoria! E l’individuazione delle diverse cause e delle chiare responsabilità lascia sempre aperta la grande questione del perché l’essere umano sia così facilmente disponibile alla violenza, alla guerra, all’uso delle armi, perché accetti gli ordini assurdi e disumani e non esprima l’obiezione di coscienza agli ordini che provocano morti, feriti, distruzioni. La Chiesa che si ispira a Gesù Cristo ha partecipato per secoli alla violenza armata degli eserciti, benedicendo armi sull’uno e l’altro fronte, con la presenza a sostegno dei soldati pronti all’assassinio dei nemici di preti in divisa, che celebravano messa, distribuivano particole e benedicevano con acqua santa gli assalti all’arma bianca.»
La chiusura con il ricordo delle parole di don Lorenzo Milani:
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.“